“Ultima Fermata” di Paciello Mina Patrizia

Ultima fermata” di Paciello Mina Patrizia


Alla fine di ottobre del 1973, intanto che la mia vita stava procedendo senza controllo verso strade  già troppe volte esplorate e perciò poco rassicuranti, decisi di mettermi in macchina per raggiungere la casa dei miei amici di sempre, Hans e Marie. Qualche sera prima, dopo una notte di bevute  estenuanti, che solo in gioventù si sarebbero potuto sostenere senza riportare danni, avevamo  progettato di creare un libro fotografico per cercare di tirar su due soldi. Avrei scattato alcune  fotografie che mi avrebbero permesso, appena possibile, di raccontare la loro storia e di metterla, ad  avere una fortuna sfacciata, in un libro. Questo progetto, di sicuro molto ambizioso ma possibile, 

era l’unica speranza che mi dava l’illusione di avere una direzione di sicuro solo un tantino definita. 

La casa era stata salvata dalla vendita con enormi sacrifici. Una gestione abbastanza sconsiderata  l’aveva trasformata, in ultimo, da piccolo orgoglio di famiglia in uno scellerato ricovero di  libertinaggio. I miei due amici, catturati da una visione appassionata dell’esistenza, l’avevano fatta  diventare una comune ospitando famiglie eterogenee in fuga dal normale senso del pudore alla  ricerca di uno stile di vita nuovo e poco impegnativo. Non avevano però considerato che tutto  questo avrebbe avuto un costo e che sarebbe finito solo sulle loro spalle inesperte. I debiti  accumulati li stavano infatti schiacciando. Da lì la necessità di procurarsi del denaro. 

In macchina, la mia instabilità cronica si fuse in modo uniforme al cielo gonfio e grigio sopra di me  che donò al viaggio un senso di precarietà. Da un momento all’altro gocce di pioggia sarebbero  rimbalzate sul tettuccio. La natura si stava preparando all’inverno che sperai fosse meno duro dello  scorso anno e gli ultimi lavori nelle fattorie erano davvero agli sgoccioli. Il freddo avrebbe fermato,  almeno in apparenza, la quotidiana e operosa attività degli uomini della terra. La strada, sporca e  fangosa, sfrigolava sotto le ruote dell’automobile, nessuno davanti a me sul rettifilo deserto. Mi  lasciavo alle spalle, mano a mano che procedevo lenta, intanto che combattevo con la spinta a  tornare indietro e finirla lì, forme di vita ai bordi della strada, vite che perdevano consistenza e  sembravano unirsi al grigio torbido del paesaggio. Il verde della primavera e i colori caldi  dell’estate erano ormai un lontano ricordo, ora solo asfalto freddo e duro. A dare il tempo a questo  mio viaggio erano i rumori, le accelerate nervose e le frenate brusche che ogni tanto imponevo al  mezzo. Ero agitata e infastidita dall’aria frizzante che entrava dal finestrino socchiuso, aria che  profumava di pioggia e aveva già quasi una consistenza bagnata. A disagio guardai il piccolo pacco  che Aaron mi aveva consegnato alla partenza. Mi aveva detto: “Portala con te, non si sa mai cosa si  potrà trovare sul cammino.” Mi era sembrata una frase assurdamente paranoica ma che, ore dopo, si  rivelò profetica. Avevo attraversato uno dei quartieri più malfamati della città con addosso una certa 

ansia. Era un posto che raccoglieva gente disperata disposta a tutto pur di prendersi qualcosa dalla  vita e sapere di avere lì, a portata di mano, una rivoltella carica, mi aveva tranquillizzato. Mi ero  chiesta tante volte se all’occorrenza sarei mai riuscita a usarla senza trovare una risposta. Del resto  chi può dire cosa si diventa se si fiuta il pericolo? 

La macchina fotografica era poggiata sul sedile lì vicino. Ero in un paesaggio che impallidiva nei  colori dell’autunno ma, anche per quello, la mia inquietudine che risuonava attraverso i pensieri,  stava diventando satura di luce metallica. 

Non avevo alcuna conoscenza anche minima di meccanica perciò, quando cominciai a sentire strani  rumori provenire dal motore, mi allarmai. Lasciai la strada principale e, seguii un cartello, che vidi a  fatica, nascosto com’era dall’albero che si sporgeva sulla strada. Indicava una località a due  chilometri da lì. Mi avventurai nella speranza di trovare aiuto. Ero in ritardo, questa deviazione mi  avrebbe rubato altro tempo ma per fortuna i miei amici, che con l’esperienza erano diventati molto  tolleranti, avrebbero capito. La strada asfaltata che si aprì su un acciottolato rumoroso mi suggerì  che stavo finendo in un budello forse senza uscita. Le gomme sollevarono acqua sporca e pietrisco e  la strada piena di buche fece sobbalzare l’auto mandandomi a sbattere sotto il tettuccio. Svoltai a  sinistra e, dopo una serie di curve, in lontananza, vidi tra la nebbia che stava scendendo, una casa in  legno, una Land Rover e altre due macchine, una di queste con il cofano posteriore aperto. Degli  uomini in tuta grigia erano seduti dentro, altri si riposavano con la schiena poggiata alla parete della  casa. Le finestre chiuse. Erano in pausa. Ridevano con gusto. Non ci vidi amarezza sul loro volto.  Mi sembrò perfetto. D’istinto poggiai il piede sul freno, afferrai la macchina fotografica e,  approfittando della sorpresa, scattai. L’arrivo di una macchina inattesa fece girare alcuni di loro  verso di me congelando all’istante quelle risate. Mi era sembrato di essere entrata, non invitata, in  una narrazione che non mi apparteneva. Suonai il clacson smontando con prepotenza  quell’immagine. Con quello scatto cambiai la trama di quella giornata e le previsioni senza speranza  che mi stavano mandando a fondo. Le facce giovani di quegli uomini mi erano sembrate  accoglienti. Percepii uno strano piacere passare dai loro respiri e arrivare fino a me. La bocca mi si  riempì di saliva, la bottiglia che avevo intravisto nelle mani di uno fugò l’ansia. Fu un attimo. Mi  trapassò e mi sospinse fuori dall’auto. Mi decisi a scendere. Sbattei la portiera ostentando sicurezza  e, sentendomi leggera come se non avessi più gravità, chiusi con le dita incerte i lembi della giacca  e attraversai il tratto di strada ricoperto di pietre. Il rumore che le mie scarpe provocarono me ne ricordò un altro, ben più temibile che si amplificò nella mia testa. Sbirciai oltre le loro spalle. Solo  campi lungo la via. Azzardai un sorriso prima di parlare. 

“Ehi, ragazzi potreste darmi una mano?”

Uno di loro si staccò dal gruppo. 

“Chi sei?” mi chiese quello con un sorriso sghembo. La faccia insolente e i muscoli delle spalle  erano gonfi di giovinezza. 

Quella semplice domanda mi mise KO. Chi ero? Una donna irresponsabile avrebbero detto di me  quelli che avevano avuto la sventura di incontrarmi, una fallita dicevo io. Con questo progetto in  mente stavo provando a dare una raddrizzata alla mia vita per fuggire dalla zona fumatori e  dall’angolo bevitori nei quali mi ero andata a ficcare piuttosto allegramente. Ma potevo dirlo a  questo tizio? 

“In realtà sto cercando qualcuno che dia un’occhiata alla macchina. Sento uno strano rumore e non  mi fido a proseguire.” 

Il ragazzo strofinò le mani sulla tuta da lavoro e alzò il cofano per dare un’occhiata al motore. “Niente di serio, non preoccuparti. Avevi solo imbarcato delle pietre. Ora è tutto a posto.” “Grazie, sei gentile.” 

“Cos’hai lì?”chiese indicando la macchina fotografica. 

“Il mio attrezzo da lavoro, sono una fotografa professionista.” 

Raddrizzò le spalle, all’improvviso interessato. “Per questo ci hai fotografato? Puoi farlo ma non  credi che sarebbe il caso di chiederci se ci va?” 

Quella osservazione mi tirò un pugno nello stomaco, da qualche parte il mio lato più morale,  accuratamente dimenticato, tornò a chiedermi il conto. “Scusami, è stato più forte di me ma se non  sei d’accordo posso evitare di stamparla.” 

“Ho un’altra idea invece … quando lo avrai fatto dovrai mandarmela. Ho un desiderio di sapere  cosa ha catturato la tua curiosità. Sono sicuro che a parole non sapresti spiegarmelo, vero?” 

Sorrisi, colpita dalla sua osservazione. Non sono mai riuscita in effetti a dire perché un’immagine  mi cattura gli occhi.  

“Non so quando riuscirò a farlo, sto iniziando un lavoro che mi porterà via molto tempo. Comunque  affare fatto. Appena possibile sarà tua.” 

“Ehi, passami la bottiglia” disse d’un tratto girando la testa in direzione di un compagno. “Offriamo  qualcosa alla nostra amica!”

All’improvviso ebbi paura. Alberi alti e distese di terre. Attrezzi da lavoro ai loro piedi. Case,  vecchi condomini abbandonati. Non mi rassicurò ciò che vidi. Quello si alzò e venne verso di noi con la bottiglia fra le mani. Mi spostai verso la portiera di destra con calcolata indifferenza. Speravo  di poter recuperare il pacchetto che giaceva innocuo sul sedile. 

“Prendo una sigaretta” dissi con tono troppo forte tradendo una certa paura. 

Aprii la porta, mi abbassai a prendere la pistola e la nascosi nella borsa. Una sigaretta apparve sulle  mie labbra secche. Chiesi del fuoco. Sperai che quei ragazzi non si mettessero in testa di dare  un’occhiata alla mia carrozzeria. I due si guardarono. Forse avevano intuito qualcosa. Mi si  avvicinarono e riuscirono a togliermi la borsa dalle mani. 

“Vediamo cosa c’è di così prezioso qua dentro” disse uno con un impeto che a fatica nascondeva  curiosità. 

“Caspita, la signora è in compagnia! Cosa credevi di fare?” e mostrò la pistola agli altri. “Non è come pensi” aggiunsi sperando di essere credibile. 

“Ah no? Racconta allora” e mi spinse verso gli altri mentre quella promessa di pioggia si rovesciò  sulle nostre teste. 

Orrore, paura, disgusto. Emozioni che avevo conosciuto, che non volevo più sentire. Forse sarebbe  bastato rimanere immobile ma le loro voci mi accerchiarono, mi stordirono e mi fecero cadere nel  buco dei ricordi e dell’ambita dimenticanza.

Paciello Mina Patrizia

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