“O mio Capitano.” di Agostino di Sciullo

“O mio Capitano.” di Agostino Di Sciullo

“O mio Capitano.”


“Capitano? Capitano?”
Il Vecchio adorava quando lo chiamavo così, gli sembrava di tornare ai giorni in cui aveva
ancora un futuro luminoso e non fumo tra le dita del tempo presente.

Mi sorrideva in maniera sghemba con le gengive intervallate da qualche dente ostinato e si
toccava la visiera del suo cappello logoro e ingiallito dal sudore.

Non avevo altra famiglia che lui e lui non aveva nessuno cui sarebbe importato se fosse morto.

La nostra casa era dove ci coricavamo la sera, ci bastavano un fuoco e la coperta di stelle che ci regalava la notte. Non mi è mai mancata l’infanzia, perché mai avrei dovuto rimpiangere regole e punizioni?

Il Vecchio mi aveva raccolto in un fagotto abbandonato e mi aveva cresciuto, insegnato a
leggere e a scrivere.

Mi aveva chiesto varie volte se volessi provare ad andare a scuola.

“Capitano, cosa ci vado a fare? Imparo tutto da te.”

Lui alzava le mani e rideva fino a tossire.

“Sei davvero furbo, hai superato il tuo maestro.” ripeteva dopo aver quasi sputato i polmoni.

L’inverno era il nostro unico, vero nemico. Quando il sole aveva fretta di coricarsi il
pomeriggio e si dimenticava come si doveva scaldare la terra, allora cominciavano i nostri veri problemi.
Le persone si rintanavano in casa e non riuscivamo a rubare nulla per sfamarci abbastanza. Il Vecchio provava a farsi assumere a giornata nei campi ma la sua schiena era da buttare e
odiava farsi comandare.

“Posso provare io a lavorare, Capitano.” suggerivo di tanto in tanto.

“No. Se cominci a lavorare poi ti abituerai e diventerai come loro.”

Alla fine riuscivamo sempre a sopravvivere e la primavera ci trovava magri ed esili come
promesse.
L’anno del nostro ultimo inverno assieme fu quello più rigido e disperato.
Il Vecchio era davvero malmesso, aveva cominciato a dimenticarsi le cose, anche di me.
Zoppicava e faticava a starmi dietro.

“Capitano, riposati, ci penso io stanotte a trovare da mangiare.”

Il Vecchio mi fissò e nascose in profondità la sua tristezza. Si alzò dal fuoco e mi ammonì
sventolando un dito giallo come le vecchie pergamene.

“Fino a che respiro non dipenderò da nessuno.”

Non replicai, sarebbe stato inutile. Ci dirigemmo lungo il fiume e senza farci notare
cominciammo a frugare nei giardini delle case che incontravamo.
Il mio stomaco gorgogliava come un vulcano che sta per eruttare e speravo di trovare almeno una patata da far bollire.
Sentii lo scoppio proprio mentre avevo trovato una zucca pronta per diventare lanterna.
Mi nascosi e pregai che il Capitano fosse in salvo. Lo vidi arrivare poco dopo, stringeva un
pollo che starnazzava e seminava piume.

“Forza ragazzo.” mi urlò.

Ci ritrovammo a correre sul fiume mentre due, tre, cinque torce ci inseguivano feroci.
Arrivammo alla riva e ci sentimmo persi.

“La casa galleggiante, presto.” mi indicò facendo dondolare a mezz’aria il povero pollo.

Raggiungemmo la casa e non appena saliti fummo raggiunti da una nuova scarica di pallini e bestemmie.

“Taglia quelle corde, presto.”

Feci più in fretta che potei e mi voltai proprio mentre un pallino mi carezzava il ciuffo. Il
Capitano aveva appena poggiato il pollo e reciso le corde di ancoraggio quando un colpo lo
fece rimbalzare sul pavimento.

Urlai dalla paura e mi avvicinai.

“Sto bene, pensa a spingere la casa al largo.” gorgogliò con la bocca piena di sangue.
Gli uomini erano quasi arrivati alla riva ma noi avevamo già guadagnato il favore della
corrente. La casa galleggiante scivolò sull’acqua così nera da sembrare ghiaccio cupo.

“Ce la farai.” gli dissi carezzandogli la testa spelacchiata.

Il pollo si avvicinò dubbioso e beccò la caviglia nuda del vecchio che spalancò gli occhi e lo
colpì facendolo saltare in un nuovo turbinio di penne candide.

“Portami dentro ragazzo, comincio a sentire freddo.”

Era un uomo magro e consumato ma per me pesava come un peccato capitale, impiegai diversi minuti e litri di sudore per farlo entrare.
La casa era una grossa rimessa piena di polvere e spifferi. Era servita tanti anni prima come
deposito ma da quando il trasporto su fiume si era motorizzato lo avevano usato solo
contrabbandieri, opossum in calore e timidi innamorati.
Aprii la camicia del vecchio, ormai ridotta ad uno straccio imbevuto ma non vidi nessuna
ferita.
Quando il Vecchio tossì, dal lato sinistro del suo petto, comparve un buco, grosso come un dito da cui colò un lungo serpente scuro di sangue.

“Non mi resta molto, ragazzo.” disse accennando una smorfia che poteva essere un sorriso.
“Non puoi lasciarmi da solo contro il Mondo.”
“Ma io non ti lascio, ti ricordi quando ti avevo parlato degli angeli custodi?”

Sorrisi e scrollai le lacrime facendo cenno di sì con la testa.

“Ecco ora divento il tuo angelo custode, non ti lascerò mai.”

Allungò con estrema fatica una mano e per la prima volta da quando lo conoscevo mi fece una carezza come se fossimo davvero padre e figlio.

“Sei un bravo ragazzo, non farti fregare, mi raccomando.”

All’improvviso la casa sobbalzò e sembrò quasi sul punto di ribaltarsi.

“Tu resta qui, vado a vedere.”

Il Vecchio provò a farmi un cenno con la testa ma non aveva più forze.
Il pollo lo guardò e decise di seguirmi.
Quando arrivai fuori vidi che il fiume stava per tuffarsi in mare e la corrente stava diventando più violenta.
Se fossimo arrivati in mare aperto non ci avrebbe ripreso più nessuno, forse gli squali.
Guardai il cielo e mi resi conto che oltre alla nostra buona stella se ne stavano andando anche le altre. Il sole stava ruggendo verso la nostra destinazione. L’alba era pronta a scoppiare.
Tornai dentro per avvertire il Vecchio.

“Capitano? Capitano?”

Era un’attesa di vani e infiniti minuti. Il Vecchio si era addormentato per sempre dimenticando di chiudere gli occhi sul mondo.
Il pollo chiocciò triste e gli si accovacciò in grembo sospirando.

Allungai la mano e singhiozzando gli abbassai le palpebre.

“Addio, babbo.” sussurrai.

Rimasi al suo fianco fino a quando un fischio mi avvisò che qualcuno ci aveva finalmente
trovati.
Finimmo sul giornale e per un paio di settimane raccontarono tutti la nostra storia. Un tizio
vestito di bianco mi chiese se poteva usare la mia avventura e metterla tra le pagine di un libro che stava scrivendo.

“Tranquillo, cambierò molte cose così nessuno ti darà noia. Però mi diresti il tuo nome, se ne
hai uno? Vorrei farti ricordare.”

Lo guardai incuriosito, era un gentiluomo del sud, con cravattino e vestito bianco.

“Non ho mai avuto un vero nome. Il Vecchio mi chiamava Huck, qualche volta.”
“Huck?” chiese come se stesse pesando le lettere.
“Non so dirle perché mi chiamasse così”
“E il Vecchio ce lo aveva un nome?”
“Io lo chiamavo Capitano però alle persone si presentava come Berry Finn.”

Il gentiluomo si illuminò in un sorriso e mi diede una mescolata alla zazzera.

“Ci sentiamo Huck. Ti farò avere il mio libro.”

Sono passati molti inverni da allora. Mi sono arreso al Mondo e spero che il Capitano mi
perdoni.

Io so solo che mi manca ogni giorno e non l’ho mai dimenticato.
Il passato è peggio della polvere, la polvere almeno puoi nasconderla sotto il tappeto. Il
passato, no. Rimane lì, ti galleggia dentro come la casa su cui eravamo fuggiti e poi ritorna per colpa della risacca e del tempo.
Conservo ancora oggi l’articolo di giornale e la foto della casa che viene trainata a riva. Tengo tutti e due nel libro del signor Twain. Alla fine aveva mantenuto la promessa e me lo aveva spedito. Ma la sua storia era meno triste della mia.

Agostino Di Sciullo